Una delle conseguenze meno notevoli ma sicuramente interessanti della scristianizzazione della società è l’aver dimenticato il “visitare i carcerati” come opera di misericordia. Non si contesta la condanna né il diritto del governo secolare di applicarla, né si discerne dell’innocenza o della colpevolezza: si va dai carcerati, li si considera come esseri umani con una dignità e si provano a capire le loro necessità e le loro azioni. Non a caso, anche quando in termini assoluti la giustizia ecclesiastica era violenta in termini relativi era quella meno violenta sulla piazza.
Ormai, spesso, i criminali sono numeri per portare avanti questa o quella tesi. Quanti di quelli che sono già qui a urlare perché non posso pubblicare un articolo del genere nel giorno contro la violenza sulle donne, in cui Impagnatiello viene condannato all’ergastolo e la stessa pena viene chiesta per il Turetta poi faranno lo stesso ragionamento per chi è a processo per qualsiasi altro reato. E quanti di quelli che condivideranno le considerazioni che seguono qui poi se il delinquente ha il passaporto sbagliato lo vorrebbero mettere alla forca a prescindere?
A me pare evidente che il Turetta abbia agito non in completa pienezza di sé: viveva in un circolo vizioso ossessivo di lungo corso nei riguardi di Giulia, che era divenuta il suo tutto, e a un certo punto ha deciso che l’unico modo in cui poteva andare avanti era uccidendola. Una decisione chiaramente irrazionale e dettata da una visione del mondo slegata dalla realtà, che un po’ mi ricorda la decisione della donna di abortire pur in coscienza che sta terminando una vita sana: non è mai una decisione pienamente razionale, c’è sempre qualche giro mentale malfunzionante e spesso fondato su visioni irrazionali del futuro che porta a ciò.
Questo non vuol dire che il Turetta debba uscire dall’aula di tribunale con una pacca sulla spalla. Sicuramente era in grado di comprendere più che sufficientemente che l’atto che stava commettendo era inammissibile e inaccettabile. Bisogna però tenere a mente questo elemento soggettivo nella definizione della pena e, soprattutto, nella prevenzione di atti del genere.
Il giovane veneto, checché ne dicessero le associazioni feminazi che in tre giorni avevano già deciso mandante, colpevole e sentenza, aveva dato ogni segnale possibile per dire che era pericoloso. Bisogna chiedersi come mai nessuno abbia interpretato questo suo disagio e gli abbia proposto aiuto. Qualcuno dice che in una vera società patriarcale i patriarchi Cecchettin gli avrebbero spaccato le gambe, ma anche questa è una soluzione subottimale: l’ideale sarebbe stato intercettare il Turetta prima che scoppiasse e compiesse l’impensabile per riportarlo in sé. No, non è “giustificare i femminicidi”, è il risultato ideale: due persone vive, due persone felici, due persone serene e con la propria stabilità mentale.
La domanda è chiaramente “come”. Conosco personalmente almeno un caso in cui se domani mi trovassi sotto casa i Carabinieri che mi dicono che è avvenuto l’impensabile e mi chiamano a deporre non potrei dire di essere stupito. Ma oltre che dire alla persona che l’altra persona è pericolosa e che può chiedere aiuto io che posso farci?
Il Turetta non va liberato. Ma va aiutato. Bisogna capire cos’ha nella testa e come rimettergliela a posto e, possibilmente, usare ciò che si è appreso per rimettere a posto altre persone. Se ce l’avessi davanti proverei certamente un enorme senso di dispiacere per ciò che ha fatto, ma anche per lui, per ciò che l’ha portato a farlo. Sarebbe bellissimo se nessuno subisse più gli stessi processi mentali che ti portano a credere che uccidere una persona che ritieni di amare sia la cosa migliore da fare, se fosse disponibile dell’aiuto per chi ha problemi del genere. Paradossalmente, è un discorso simile a quello della pedofilia: l’atto è osceno e, appena lo senti, ti viene da mettere la mano alla fondina, ma spesso a compierlo sono vittime di abusi e la demonizzazione totale rende difficile a chi vorrebbe essere aiutato di ottenere l’aiuto che desidera, spesso avviandolo all’abuso.
Diverso è il discorso per Impagnatiello. Lì il caso è completamente opposto, lucido e programmatico: c’era un’altra donna, la ragazza incinta era d’intralcio e, dopo averla convinta a tenere il figlio (nota: il caso di amanti problematici è uno dei casi in cui si può dire che l’aborto salva la vita della donna, ma anche in questo caso è un risultato non ideale, sarebbe meglio una donna con un figlio e il partner in qualche riabilitazione che la donna senza figlio che torna dal partner problematico), prima ha provato ad avvelenarla e poi, quando ha fallito, l’ha uccisa a sangue freddo per salvarsi l’immagine. Se ci fosse, sarebbe uno di quei casi dove la pena di morte dovrebbe essere sul tavolo.
Anche qui, magari, lui potrà cambiare e redimersi, ma l’atto commesso, seppur identico a quello del Turetta, è figlio di meccanismi mentali completamente diversi, e nel definire un reato la componente soggettiva conta e non poco. Se il Turetta è un vetro fragile che si è rotto perché nessuno ne ha voluto affrontare le crepe, il caso di Senago è figlio di logiche completamente diverse e, francamente, difficilmente affrontabili con strumenti che non siano repressivi.